COSE CHE RENDONO FELICI
Quando ero piccolo, nella sabbia in riva al mare cercavo sempre gli occhi di Santa Lucia, delle piccole, piccolissime conchiglie.
Mi entusiasmava l’idea di trovare qualcosa che, per i miei occhi da bambino, era un oggetto raro e prezioso; come un dono che il mare aveva realizzato solo per me.
Con gli anni tutto è cambiato, ma ancora oggi in riva al mare, facendo scivolare la sabbia dalle dita, ricerco quelle conchiglie.
Perché?
Per mantenere vivo un ricordo, un bisogno.
Il bisogno di non farmi contaminare più di quanto non sia realmente necessario dall’ordinario modo di vedere le cose.
Il prezzo che si pagherebbe, infatti, è alquanto alto: la noia, l’apatia, l’assenza di significato.
Una vita piatta in cui ogni cosa perderebbe di senso.
Perché niente ha senso se non si decide di darglielo.
I colori del mondo non stanno nel mondo, ma in noi stessi.
Frasi e luoghi comuni, certo, che tuttavia comuni non sono quando si decide di viverli in prima persona.
Si può essere artisti, ad esempio, per il piacere di venire considerati dagli altri come tali, o si può essere artisti per il puro e semplice bisogno di non far spegnere quella fiamma interna capace di dare colore al mondo che sta lì fuori.
Quello che diciamo essere “il vivere sociale”, infatti, non è altro che un modo d’interagire che stabilisce comportamenti e consuetudini a cui la maggior parte si allinea.
Pena l’ esclusione, l’isolamento, la solitudine.
È bello sentirsi appartenenti a qualcosa, ma delle volte si perde il piacere di vedere le cose in modo unico e originale.
Spaventerebbe, infatti, l’idea di essere visti dagli altri come diversi, strani, problematici.
Quello che fino a poco tempo prima era un piacere e una fonte di sicurezza, può divenire nel giro di breve fonte di grande dispiacere e insicurezza.
Il dispiacere di chi, vedendo il mondo per come gli è stato insegnato, finisce con il vivere nella paura di trasgredire all’ordinarietà, al mondano, o peggio ancora di perdere questa capacità.
Che capacità?
La capacità di mantenere vivo il ricordo che un tempo niente era noto, che niente aveva un nome.
« Quando il bambino era bambino…», scrive il Peter Handke, « …era l’epoca delle domande.. »
Non già delle risposte.
È l’adulto che ha bisogno di risposte, spesso futili e noiose.
Il bambino, di norma, ha già le sue risposte, benché non sempre legittimate dagli altri.
Ecco dunque l’importanza da adulti di legittimare quel bambino interno che vede un mondo che non gli è stato insegnato a vedere, ma che vede;
in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni conchiglia.
« Ora che ho perso la vista ci vedo di più » (Dal film “Nuovo Cinema Paradiso”)
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