IL POTERE DELLE PAROLE

il potere delle parole

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Riuscire a  tradurre a parole ciò che si sta vivendo è senz’altro un’importante capacità dell’essere umano.

Il linguaggio dà forma a quanto di più caotico si vive dentro di sé.

È per questo che gli studi che hanno indagato le modalità per gestione le emozioni nell’essere umano attribuiscono una così grande importanza al dare il giusto nome a ciò che si vive.

Come se la semplice etichetta con cui si potrebbe nominare un’emozione potesse di per sé aiutarci a contenere lo stesso vissuto che staremmo vivendo.

Perché?

NOMI CHE CURANO

Il respiro che si fa più faticoso, la voce che si abbassa,  i pensieri che si accavallano velocemente, i muscoli che rimangono tesi, il forte desiderio di scappare da dove ci si trova…

In una parola: ansia

Cinque lettere per racchiudere un’esperienza tanto complessa quanto allarmante quando vissuta senza che si comprenda che cosa effettivamente  si stia vivendo.

Prevedibilità e controllo sono bisogni intrinsecamente presenti nella nostra vita.

Abbiamo bisogno di sapere non soltanto che l’ambiente esterno sia sicuro e che non vi siano “pericoli all’orizzonte”, ma anche che lo stesso tipo di minaccia non provenga dall’interno.

Dare un nome a ciò che si vive permette allora di ridurre quello stato di allarme che potremmo vivere nel ritrovarci in balia di esperienze interne poco comprensibili e incontrollabili.

Questo dunque un primo effetto del nominare ciò che si sta vivendo: permette di evitare che la mente tragga subito le conclusioni peggiori, aggiungendo, all’esperienza che già si starebbe percependo, anche il disagio del non saperle dare un nome.

Chi soffre di attacchi di panico questo lo sa bene.

È infatti nel momento in cui una semplice esperienza interna viene scambiata per qualcosa di ben più grave e catastrofico che il panico si manifesta.

il potere delle parole

Al contrario, circoscrivere un’esperienza interna attorno ad un nome permette di sfruttare tutte le conoscenze che abbiamo associato a quel nome.

Di ansia non si muore”, si recita spesso durante i percorsi di psicoterapia e non a caso; permette infatti il passaggio, dal riconoscere ciò che si vive, al tranquillizzare in modo autonomo una mente che spesso scalpita per avere risposte.

Non tutte le risposte, tuttavia, si mostrano effettivamente di aiuto.

Solo quelle che riescono effettivamente a ridurre il forte bisogno di prevedibilità e controllo sembrano riuscire a farci sentire appagati.

Sapere che quanto si starebbe provando non esprime un reale pericolo ci aiuta a continuare ad esplorare il nostro vissuto senza che per questo prevalga in noi l’impeto di dovercene assolutamente liberare.

Crescere è anche questo, dopotutto: disporsi nei confronti della propria esperienza con la curiosità tipica di un bambino, che scappa per gioco da ciò che teme per poi ritornarci, per provare il piacere del brivido della paura.

NOMI CHE PORTANO LONTANO

Certo, delle volte il pensiero va lontano, andando oltre l’esperienza che si starebbe vivendo.

E tanto più spaventa ciò che si sta provando, quanto più il pensiero ci porta a spasso, inseguendo scenari negativi ben più prevedibili e attorno a cui si arrovella la mente in cerca di soluzioni.

Soluzioni che puntualmente non si trovano.

Non essendo infatti presente alcun problema se non un’iniziale esperienza emotiva, il senso di colpa in questo caso, ogni risposta apre a nuove domande, in un circolo vizioso non avente mai termine.

Ecco dunque come un’emozione possa predisporci  ad un dialogo interiore con noi stessi alla ricerca di quella possibile risposta che permetterebbe semplicemente di non credere più di avere una reale colpa.

Come se tutte le volte che si provasse senso di colpa si avesse realmente una colpa.

Destino beffardo quello di chi è stato particolarmente responsabilizzato fin dall’infanzia.

Da grande risorsa, il linguaggio può divenire così parte di un problema più grande e non riconosciuto, quello della gestione di un’emozione, la colpa, per i quali si è particolarmente sensibili, come spesso capita in chi vive problemi ossessivi.

il potere delle parole

Non è un caso se nei percorsi psicologici si aiutano le persone a sostare nella colpa, senza per questo impegnarsi in quei complessi ragionamenti propri del rimuginio che sovente non portano da nessuna parte, se non ad intensificare il proprio disagio.

Risposte semplici a dilemmi complessi, per i quali spesso non v’è risposta utile se non quella che riconosce l’inutilità della risposta.

Tollerare l’incertezza, quando eccessiva, diviene allora nient’altro che imparare a tollerare la colpa, quando eccessiva, ossia quando percepita internamente come intollerabile.

Certo, questo non prima di aver riconosciuto tale esperienza come una semplice emozione.

Ancora una volta un nome, questo, che aiuta a dare ordine ad una mente in balia della confusione, richiamandola da luoghi ben più distanti dove sovente va a nascondersi per sfuggire ad una semplice esperienza interna.

NOMI CHE TRASFORMANO

Il linguaggio, tuttavia, è ben altro che una capacità utile per regolare le nostre emozioni.

Dando all’esperienza che staremmo vivendo un limite – qual è quello proprio di ogni regola grammaticale –, il linguaggio trasforma l’esperienza, rendendola altro rispetto a quella che si era inizialmente percepita.

Lo sanno bene i poeti, consapevoli dell’impossibilità di comunicare a parole ciò che si vive in prima persona se non nella musicalità cui rimanda un testo non certo scritto sull’impeto del momento, ma ragionato, parola per parola.

il potere delle parole

Poc’altro si riferisce a parole, dunque, se non la consapevolezza di un’esperienza che già si è già vissuta in prima persona.

Come se le parole arrivassero sempre dopo l’esperienza, impacchettandola per bene perché altri possano facilmente comprenderla, ma solo con la ragione.

L’emozione, a cui rimandano le parole, è negata a chi ascolta solo con la testa, a chi si illude di aver compreso semplicemente decifrando parola per parola quanto è stato a lui proferito.

Al contrario, nessuna parola sarebbe necessario proferire ad un ascoltatore che saprebbe osservare con attenzione.

Uno sguardo, un sorriso di circostanza, un sospiro trattenuto.

La chiamano empatia.

« L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto » (Carl Rogers)

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